Area dell'identificazione
Segnatura/e o codice/i identificativo/i
BE_REG-20-99-b.35-fasc.16
Denominazione o titolo
"Il Popolo Sammarinese", Anno IX, n. 16
Data/e
- San Marino, 31 agosto 1934 (Creazione)
Livello di descrizione
Unità documentaria
Consistenza e supporto dell'unità di descrizione (quantità, volume, dimensione fisica)
Area delle informazioni sul contesto
Storia archivistica
Modalità di acquisizione o versamento
Area delle informazioni relative al contenuto e alla struttura
Ambito e contenuto
IL POPOLO SAMMARINESE, ANNO IX, N. 16
Numero dedicato al dodicesimo anniversario del fascismo sammarinese, varie fotografie attestanti i lavori del governo fascista, quali il ripristino del Castello della Fratta, Ara dei Volontari, giardini pubblici, ecc. Nell'articolo: 'La leggenda del Campanone', l'autore, M.R., inizialmente si sofferma sul fascino del Titano, che appare bello “nella pur tenue vegetazione che lo ricopre, oggi che per volere di saggio governo i rimboschimenti sono all'aurora della rinascita”. Pensando alla storia della Repubblica, l'autore scrive che “ogni popolo ha le sue leggende che sono la poesia della storia, la sintesi delle virtù e dei vizi degli uomini”, e inizia a raccontare la leggenda: la Campana della Rocca Maggiore, così chiamata per distinguerla da quella della Fratta, si era rotta nell'autunno del 1779, rifusa in “metallo buono e di buon suono”, e tornata a San Marino solo nel luglio 1781. A questo punto, riferendosi al difficile trasporto per ricollocarla in Rocca, l'autore ricorda che “una strada conduceva alla porta della Rupe ed era la Costa, un'altra conduceva alla Porta San Francesco e anche questa, detta la Via Piana, partiva dal Borgo, si staccava dalla Costa e veniva alle Piagge e saliva alla Porta soprannominata; un’altra finalmente veniva da Fiorentino e non c'era altra via degna di questo nome”. Il racconto spiega che tali strade “erano tutte lastricate, secondo il sistema romano, e all'infuori di queste non si avevano che sentieri poco frequentati e malsicuri che si perdevano nella selva di foltissime querce che rivestivano il monte da ogni parte”. Divagando, l’autore precisa che la strada della Costa, la più frequentata e senza dubbio “la più curata dall'amministrazione”, vide le orme nella neve alta di Sant’Agata, tra la notte del 5 e 6 febbraio di un anno imprecisato, che per la Costa transitarono in parte le truppe alberoniane, e che per la Costa era stato portato il Campanone, per tradizione “colato vicino alla Chiesa di Ventura, accanto al Campo della Fiera”. Tornando alla leggenda, si narra che “era un dolce vespero di Luglio” e “solo per la Costa le alte grida di incitamento alle bestie, e di accordo fra gli uomini che dovevano compiere insieme una fatica, rompevano tanta quiete”; molte “erano le paia di buoi attaccati al biroccio che portava il Campanone, molti erano i bifolchi che pungevano con la voce e coll'asta le bestie che rampavano a fatica su per l'erta”, finché bestie e uomini, sfiniti, non fecero più un passo. Allora si fece avanti un vecchio, Filippone del Fosso “diverso dagli altri per altezza, per forza”, che conduceva “due vaccherelle lunghe e striminzite”; il vecchio ordinò di staccare i buoi e di attaccare le vaccherelle, le quali “smossero il biroccio col campanone e salirono su per l'erta quasi di corsa”. Infine, si racconta che il vecchio e le vaccherelle erano nel frattempo scomparsi, e che Filippone, più volte interrogato, asserì di non aver lasciato la casa quella sera, né di aver mai posseduto le vaccheerelle descritte.
Numero dedicato al dodicesimo anniversario del fascismo sammarinese, varie fotografie attestanti i lavori del governo fascista, quali il ripristino del Castello della Fratta, Ara dei Volontari, giardini pubblici, ecc. Nell'articolo: 'La leggenda del Campanone', l'autore, M.R., inizialmente si sofferma sul fascino del Titano, che appare bello “nella pur tenue vegetazione che lo ricopre, oggi che per volere di saggio governo i rimboschimenti sono all'aurora della rinascita”. Pensando alla storia della Repubblica, l'autore scrive che “ogni popolo ha le sue leggende che sono la poesia della storia, la sintesi delle virtù e dei vizi degli uomini”, e inizia a raccontare la leggenda: la Campana della Rocca Maggiore, così chiamata per distinguerla da quella della Fratta, si era rotta nell'autunno del 1779, rifusa in “metallo buono e di buon suono”, e tornata a San Marino solo nel luglio 1781. A questo punto, riferendosi al difficile trasporto per ricollocarla in Rocca, l'autore ricorda che “una strada conduceva alla porta della Rupe ed era la Costa, un'altra conduceva alla Porta San Francesco e anche questa, detta la Via Piana, partiva dal Borgo, si staccava dalla Costa e veniva alle Piagge e saliva alla Porta soprannominata; un’altra finalmente veniva da Fiorentino e non c'era altra via degna di questo nome”. Il racconto spiega che tali strade “erano tutte lastricate, secondo il sistema romano, e all'infuori di queste non si avevano che sentieri poco frequentati e malsicuri che si perdevano nella selva di foltissime querce che rivestivano il monte da ogni parte”. Divagando, l’autore precisa che la strada della Costa, la più frequentata e senza dubbio “la più curata dall'amministrazione”, vide le orme nella neve alta di Sant’Agata, tra la notte del 5 e 6 febbraio di un anno imprecisato, che per la Costa transitarono in parte le truppe alberoniane, e che per la Costa era stato portato il Campanone, per tradizione “colato vicino alla Chiesa di Ventura, accanto al Campo della Fiera”. Tornando alla leggenda, si narra che “era un dolce vespero di Luglio” e “solo per la Costa le alte grida di incitamento alle bestie, e di accordo fra gli uomini che dovevano compiere insieme una fatica, rompevano tanta quiete”; molte “erano le paia di buoi attaccati al biroccio che portava il Campanone, molti erano i bifolchi che pungevano con la voce e coll'asta le bestie che rampavano a fatica su per l'erta”, finché bestie e uomini, sfiniti, non fecero più un passo. Allora si fece avanti un vecchio, Filippone del Fosso “diverso dagli altri per altezza, per forza”, che conduceva “due vaccherelle lunghe e striminzite”; il vecchio ordinò di staccare i buoi e di attaccare le vaccherelle, le quali “smossero il biroccio col campanone e salirono su per l'erta quasi di corsa”. Infine, si racconta che il vecchio e le vaccherelle erano nel frattempo scomparsi, e che Filippone, più volte interrogato, asserì di non aver lasciato la casa quella sera, né di aver mai posseduto le vaccheerelle descritte.